New Ways of Working

La verità sugli Open Office e le soluzioni dello Smart Working

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Startup Stock Photo

La ristrutturazione dei luoghi di lavoro verso spazi aperti e condivisi tra i worker ha preso piede in Italia seguendo la moda delle più grandi multinazionali statunitensi. Si stima che negli Stati Uniti il 70% degli uffici abbia tramezzi minimi o assenti, una crociata anti-mura guidata a spada tratta dalla Silicon Valley. Google, Yahoo ed eBay, solo per citarne alcuni, ma soprattutto Facebook: Mark Zuckerberg ha assunto nel 2012 il famoso architetto Frank Gehry per la creazione del più grande piano open space del mondo, che arriverà ad ospitare circa 2.800 ingegneri. Una moda che è diventata quasi un’ossessione, allo scopo di creare trasparenza ed eguaglianza tra i worker.
Siamo sicuri che sia la strada giusta?
Negli Stati Uniti, dove la rivoluzione degli spazi è avvenuta già a partire dalla prima decade del nuovo millennio, i maligni sostengono che queste ristrutturazioni in favore di spazi aperti sono ideali solo per massimizzare lo spazio e minimizzare i costi. Che sono un modo per i Boss di tenere un occhio sui dipendenti, al fine di limitare la navigazione sui social network o l’utilizzo dei cellulari durante l’orario di lavoro.
Maligni a parte, ci sono alcuni studi condotti sul suolo Americano che ci rivelano dati interessanti: molti worker che lavorano in open office sono frustrati da distrazioni che conducono a performance peggiori; inoltre, circa la metà degli intervistati dichiara che la mancanza di isolamento acustico è un problema significativo e più del 30% si lamenta della mancanza di privacy.
In una interessante ricerca condotta dalla rivista The New Yorker nel 2014, è risultato che i benefici (per l’azienda) derivanti dalla realizzazione di spazi comuni mascherano gli effetti negativi (per il worker) sulle performance individuali. Se da un lato gli individui si sentono parte di un ambiente di lavoro no-stress, innovativo e cool, dall’altro lato il nuovo ambiente di lavoro danneggia i livelli di attenzione, la produttività e il pensiero creativo.
Quindi corriamo il rischio di commettere gli stessi errori?
Non necessariamente. Prendendo le mosse dagli errori commessi in passato, lo Smart Working si sforza di far capire come la ricerca ossessiva di spazi condivisi non sia la soluzione. La verità sta nel mezzo: bisogna sì andare verso la condivisione degli spazi e delle conoscenze tra worker, ma bisogna anche evitare di passare da un eccesso (ognuno nel suo cubicolo) all’altro (3.000 persone in un unico grande capannone).
Da un punto di vista fisico, per incoraggiare il giusto modello di interazioni bisogna far in modo di assicurare un sufficiente livello di privacy, in modo tale che si possa parlare in privato e lavorare senza interruzioni. Parliamo di prossimità e di privacy:
– Prossimità: diamo ai worker quanto più spazio possibile, ma diamogli anche “vie di fuga” attraverso la realizzazione di aree relax, aree snack, e silent room.
– Privacy: le postazioni di lavoro condivise devono essere disegnate in modo tale da offrire, se necessario, isolamento visivo e acustico, e dovrebbero permettere al worker di accorgersi che qualcuno sta venendo verso di lui.
Da un punto di vista più concettuale, invece, per incoraggiare un modello di lavoro basato sulla condivisione bisogna far leva sulla cultura organizzativa e sulla gestione del cambiamento, in modo tale che l’organizzazione educhi i propri worker e li affianchi nella transizione verso il nuovo modo di lavorare. Parliamo di permessi e di trasformazione:
– Permessi: la cultura aziendale deve stabilire cosa è permesso e cosa non lo è in termini, ad esempio, di socializzazione con i propri colleghi, volume della voce e utilizzo di musica, in modo da garantire una coesistenza realmente produttiva.
– Trasformazione: a pochi piace davvero cambiare. Se è vero che i Millennial sono già pronti a lavorare con modelli basati sulla condivisione, è anche vero che i worker già insediati potrebbero non digerire la transizione. È fondamentale che il cambiamento sia innanzitutto spiegato e condiviso con tutti i livelli organizzativi, affinché sia accettato. Il più grande, e anche il più facile, errore in cui si incorre è quello di catapultare i propri worker in uno spazio a loro inaspettato e non familiare.
Nella ricerca di una maggiore produttività per le organizzazioni e di un maggiore benessere per i worker, le soluzioni a disposizione proposte dallo Smart Working sono molteplici:
Spazi > bilanciamo spazi di lavoro condivisi con spazi di lavoro dove potersi concentrare, rilassarsi o fare una pausa.
Comportamenti > creiamo un codice di comportamento che non limiti ma regoli in modo smart le interazioni tra worker.
Leadership > affianchiamo i worker nella trasformazione degli spazi e del loro modo di lavorare, affinché assimilino il cambiamento nella loro mente prima ancora che nella loro quotidianità.
Flessibilità > facilitiamo la possibilità di lavorare fuori e dentro l’ufficio, permettendo al singolo worker di ricercare la sua massima produttività.
Non esiste una ricetta univoca che vada bene per ogni realtà organizzativa. Trovare il giusto mix tra open space, privacy e lavoro al di fuori dell’ufficio è una delle nuove sfide che le aziende di tutto il mondo si trovano oggi ad affrontare per mantenersi competitive nel mercato e verso i worker del futuro.
Smartworking, lavoro agile
Articolo di Alberto Rossini -> Profilo linkedin

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