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Il senso del lavoro: il valore e l'identità professionale

identità professionale

Prosegue la mia ricerca sul “senso del lavoro”: dopo aver parlato di quella che è l’evoluzione aziendale, attraverso le parole di Francesca Ronfini, oggi vorrei porre lo sguardo sull’altro soggetto interessato: il lavoratore.
Per farlo ho intervistato Silvia Bona, ricercatrice e progettista nell’area lavoro e sviluppo professionale in Piano C, il primo spazio in Italia per far incontrare donne e lavoro.
L’intervista è un po’ lunga, ma ti assicuro che vale la pena leggere fino in fondo. Per trovare stimoli e spunti di riflessione sul tema del lavoro e dell’identità professionale, ciò che racchiude chi siamo nella sfera lavorativa in relazione a noi stessi e agli altri, per rafforzare il rapporto con la società o rimettersi in gioco.
Tempo di lettura: 8 minuti.

Il lavoratore tra senso del lavoro, valore e identità professionale

Q. Ciao Silvia, a PianoC si rivolgono persone uscite dal mercato del lavoro per varie ragioni. Come si sentono e quali sono le esigenze più forti?

A. A PianoC si rivolgono persone che si pongono una domanda circa la propria identità professionale e la sua spendibilità nel mercato o, come preferisco dire, nel mondo. Persone con bisogni e desideri, che richiedono lavoro per essere soddisfatte, ma che ancora non hanno una soluzione riconosciuta dal mercato e codificata nelle competenze di una professionalità.
C’è chi il lavoro lo ha perso, o lo ha lasciato. C’è chi è male-occupato, perché un lavoro più o meno ce l’ha, ma è discontinuo, scarso, poco riconosciuto e troppo poco retribuito per essere anche fonte di reddito. Oppure è un lavoro di ripiego, lontano da passioni, interessi, competenze, desideri.
C’è chi è apparentemente ben occupato, ma si concentra sulla conciliazione con altri aspetti della propria vita. Chi non si riconosce più nel proprio ruolo o addirittura nella propria professione; persone che avvertono il desiderio di realizzare un sogno in un cassetto; chi semplicemente vuole provare a ripensarsi. Infine, c’è chi ci porta un’idea che vorrebbe trasformare in impresa, o almeno in qualche modo farne un pezzetto della propria identità professionale.
Per noi il tema del lavoro non è (solo) il tema della disoccupazione o della ricollocazione, ma quello dell’identità professionale: tutte queste persone, hanno una stessa domanda:
“Ma io, con la mia storia, la mia esperienza, il mio stile, le mie competenze, professionalmente, che risorsa sono? E per chi lo sono? Come posso rendere visibile e generativo ciò che so, che so fare, che sono?”.
C’è sempre dietro a queste domande un senso di opacità: qualcosa che non si vede, non si manifesta, non si mette in azione.

 
A volte manca lo sguardo sul sé: la consapevolezza del proprio talento, la percezione di un filo rosso che cuce diverse esperienze in un’identità, il riconoscimento del proprio desiderio, che permette di definire una direzione progettuale.
Alcune volte manca lo sguardo sul mondo: le informazioni verificate rispetto alle sue dinamiche e alle sue reali minacce ed opportunità, ma soprattutto la sua natura di sistema, costituito da una rete che deve essere vissuta ed attivata. Perché le risorse non sono solo quelle interne, ma anche quelle esterne, e nessun progetto, tanto meno quello professionale, si costituisce in solitudine.
Può mancare anche lo sguardo dell’altro: il non sentirsi visti, riconosciuti, valorizzati o peggio rinchiusi dentro uno stereotipo, che chiude la pensabilità di sé e delle proprie possibilità.
Il modo di parlare di ricerca del lavoro, ci ha abituati a pensare che, collocarsi e ricollocarsi, sia un tema di personal branding.
Questa è la domanda esplicita per la quale le persone chiedono una consulenza, ma che non trova risposta se non si accetta di affrontare quella più profonda della visibilità, dell’identità professionale e della sua traduzione in una proposta di valore.

Q. Quali sono le dinamiche più forti che percepisci? Il valore del lavoro, è davvero così importante per chi deve cercare un’occupazione?

A. La tendenza più forte, a mio avviso riguarda la resistenza a cambiare il modo di pensare l’identità professionale, pur nella consapevolezza che il mondo del lavoro, ma non solo, è radicalmente cambiato.
Certo è un assunto che andrebbe approfondito, ma mi pare che la radice anche di altre tendenze, che secondo me ostacolano la capacità di offerta e la soddisfazione della domanda, derivino da qui: non è più chiaro cosa si sta scambiando.
Per dirla in modo un po’ banale: si continua a pensare la professionalità come una struttura semplice, come una somma di competenze tecniche ed esperienze. In realtà, ciò che le organizzazioni cercano, è qualcosa di vivo e di complesso.
Del resto, come già mise in luce Giovanni Costa nella prefazione ad un interessantissimo testo sul paradosso della complessità, mentre la cultura digitale diminuisce la necessità di lavoro sulle attività di trasformazione, la complessità del contesto interno ed esterno alle organizzazioni e delle sfide che si pongono, aumenta la richiesta di attività di interazione, che richiede un esercizio di discrezionalità per produrre soluzioni innovative, taylor made.
È evidente che l’oggetto della domanda non è più la capacità di svolgere una data attività, ma di essere una risorsa generativa per un sistema. Semplificando, si potrebbe dire che tutti fanno proprio quell’aforisma, mi pare attribuito a Steve Jobs:
[bctt tweet=”Non cerchiamo persone a cui dire cosa fare, ma persone che dicano a noi cosa dobbiamo fare. Steve Jobs” username=”spremute”]
In questo contesto, però, sia la domanda sia l’offerta di lavoro diventano una sfida, e spesso si rendono opache le une alle altre. È molto interessante ciò che accade sul lato della domanda di lavoro, ovvero nell’individuazione della risorsa necessaria, della sua ricerca e del suo riconoscimento.
Si pensi solo alle riflessioni sul recruitment ed alla ricerca di nuovi modelli, come il caso di JustKnock, ma anche al dibattito che si sta aprendo intorno allo strumento dell’assessment.
L’Associazione Psicologi in Azienda, sta ragionando sulla costruzione di uno strumento capace di valutare il candidato in modo contestuale, secondo una logica di sistema. Questo apre un capitolo a sé, che incrocia l’innovazione nell’HR management.
Mi focalizzo, invece, solo sulle ricadute sull’offerta. Pensando la professionalità in modo semplice, riconducendola ad un’etichetta o all’enumerazione analitica di competenze ed esperienze. Chi offre lavoro, spesso finisce per limitarsi nelle proprie possibilità, fino a chiuderle.


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Q. Quali sono i rischi e le tendenze nella definizione dell’identità professionale?

Il primo rischio è di definire a priori la propria scelta professionale, in una prospettiva univoca e in una logica progettuale rigida. Chi si pone nel mondo del lavoro, in genere, procede in due modi: o muovendo da sé o muovendo dal mondo. Ma entrambi gli approcci, spesso non portano lontano.
Chi muove da sé, lo fa attraverso un bilancio di competenze più o meno strutturato, che analizza e scompone le esperienze, i saperi, le abilità, le attitudini. Ne risulta spesso una fotografia fissa nel qui ed ora, da presentare a qualcuno, nel mondo-mercato, per verificare se può averne interesse. Ci si intrappola in una figura già data, spesso neppure consapevolmente costruita, ma frutto degli accadimenti sconnessi della storia professionale.
E si finisce per riproporsi sempre nello stesso modo, con gli stessi esiti: la fotografia data dal bilancio delle competenze viene considerata come un punto di arrivo, e non come il materiale sul quale iniziare a lavorare per trarne una nuova struttura di senso.
Ma questo lavoro necessita di un altro punto di vista: quello del mondo-mercato.
Anche questo però non deve essere assolutizzato: c’è chi, infatti, dimentica se stesso e si rivolge esclusivamente a quanto accade all’esterno, seguendo o meglio inseguendo, i trend professionali emergenti, perdendo di vista o trascurando la propria storia, il proprio talento, i propri interessi.
C’è chi cerca rimedio in una formazione scelta a priori e spesso poco utile, perché non radicabile in qualche aspetto della professionalità esistente. E chi ce la fa, finisce spesso però per essere “la persona sbagliata nel posto sbagliato”, con ricadute negative sul proprio benessere e anche sulla propria produttività.


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È necessario, invece, considerare entrambi questi poli: sé e il mondo. E soprattutto è necessario esplorare, ascoltare ed osservare prima di ideare, rompendo gli stereotipi: ecco la prima inversione di tendenza che mi sembra utile mettere in atto.
Ma anche nell’ideazione si innesta una seconda tendenza disfunzionale: quella di pensare la professionalità data, una volta per tutte.
La logica della professionalità chiusa in una figura professionale, infatti, porta ad agire come se sia necessario definire il proprio profilo, darsi un’etichetta che lo sintetizzi e lo comunichi efficacemente, per poi avviare una ricerca per trovare la posizione, nel quale quel profilo si incastra.
Una logica di tutto o nulla: se non si trova, il profilo non funziona, non è interessante. Deve essere sostituito. Anche in questo caso, si tratta di un’autolimitazione. Su due livelli.
Nella fase di costruzione del profilo, diventa essenziale considerarne la natura progettuale: ovvero il valore che, in forza del suo talento, del suo interesse, della sua storia, la persona è in grado di generare.
In altre parole: non chiudersi in un’etichetta riconoscibile per il mondo-mercato, ritagliando alcuni aspetti che sembrano interessanti, ma sapere utilizzare la mappa del proprio talento, che integra elementi della propria persona e della propria storia, per produrre un effetto, un risultato che possa essere di interesse per l’interlocutore.
In questa prospettiva, il progetto professionale è incrementale e flessibile: ogni incontro con il mondo-mercato rappresenta un feed back. La professionalità si nutre di feed back positivi e negativi e si sviluppa in modo incrementale, configurandosi come un sistema dinamico e vivo, rendendo la ricerca del lavoro, ma anche il lavoro stesso, un processo di design professionale.
E qui vengo alla terza tendenza
Pensare che la ricerca di lavoro sia una questione di strumenti di comunicazione: trovare le parole giuste, costruire un buon cv, conoscere le modalità di funzionamento dei canali social, sapersi presentare in 30 secondi, sono vissute come le chiavi del successo. Tutto questo è necessario, ma non sufficiente.
Il personal branding, ovvero la costruzione e la comunicazione della propria identità professionale, è solo una parte – e direi forse quella più facile – della progettazione professionale, che richiede essere consapevoli non solo del proprio valore, ma anche della propria proposta di valore, ovvero sapere che risorsa si vuole e si può essere per i diversi interlocutori.
In altre parole: la professionalità oggi è strutturalmente relazionale.
Ciò che si scambia, infatti, non sono più solo competenze ed esperienza, ma è un valore, inteso come capacità di produrre un effetto nella direzione desiderata. Per questo, l’incontro domanda offerta da match, diventa fit: non il ricoprire una posizione vacante. Ma essere la risposta giusta alla domanda che quella organizzazione si sta ponendo, per realizzare la propria proposta di valore.
L’essere adatto è molto più che saper giocare un ruolo: è saper fornire un risposta che vada nella direzione desiderata, è condividere questa direzione e avere ipotesi su come raggiungerla.
La rivoluzione del lavoro e della professionalità sta qui: nel costruire l’identità su una proposta di valore. Sulla capacità di produrre un effetto, di far accadere qualcosa nel mondo in una direzione data, ma con la capacità di stare nelle cose, accogliendo le emergenze in un processo inclusivo e valorizzante.
In questa prospettiva, la generazione di valore diventa la chiave di volta dell’incontro domanda-offerta. Una rivoluzione? Credo di si. Ma credo che nessuno più metta in discussione che siamo di fronte ad un cambio di paradigma. Il cambiamento non solo strutturale, ma epistemico, è inevitabile.

Q. Quanti stimoli, quante aree di riflessione aperte… Adesso mi piacerebbe approfondire l’incrocio con la domanda e con le aziende, ma magari di questo parliamo in un secondo momento, cosa ne dici?

A. A disposizione, quando vuoi. Alla prossima chiacchierata.
 


Qui troverai la seconda parte dell’intervista a Silvia Bona Il senso del lavoro: la ricerca del talento


 

Il senso del lavoro: il valore e l'identità professionale

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