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I sindacati e lo smart working: il caso UIL

sindacati e smart working

sindacati e smartworking

Tempo fa ho pubblicato un articolo in cui, parlando della normativa sullo smart working, chiudevo dicendo:

…Spero vivamente che chi si sta così impegnando per delineare una normativa completa e applicata allo smart working, sappia poi riportarne alcuni punti anche sui lavoratori “tradizionali”, e se non ci arriverà la legge, magari potranno intervenire i sindacati, innovando così il mercato del lavoro in senso pieno e vero.

Dell’articolo abbiamo discusso su LinkedIn all’interno della community “Smart Working e Lavoro Agile” e un commento diceva:

L’articolo è molto interessante. Mi trovo in disaccordo su questo passaggio conclusivo… Per mia esperienza personale ritengo infatti che in sindacati siano un ostacolo alla reale evoluzione del lavoro in tutti i sensi, in particolare riguardo lo “smart working”

E successivamente:

Mi piacerebbe che chi ha gli strumenti per farlo, facesse una sorta di “indagine” per capire quanto, all’interno dei sindacati, si sa di smart working e quali sono sopratutto, i piani di “sviluppo” se ne esistono, a livello di ciascuna sigla. Magari scopriamo che i sindacati “odierni” non hanno affatto le idee chiare e rimangono radicati agli schemi fordisti e tayloristi.

Come lasciarsi scappare tale richiesta?

Sindacati e Smart Working: la strada giusta

Ho deciso di iniziare da UIL, e ho fatto una chiacchierata con Alberto Mandruzzato, Funzionario territoriale UILTEC Milano Metropolitana.
Q. Dunque Alberto, iniziamo dalla base: quanto si parla di smart working all’interno del sindacato?
A. Il dibattito è molto ampio e lo dimostrano anche i numerosi convegni che sono stati fatti negli anni, te ne cito due: uno a Palazzo Reale e uno in Regione Lombardia ai quali aveva partecipato la nostra consigliera di parità.
A livello di categoria, inoltre, stiamo inserendo in molti accordi di secondo livello lo smart working.
Avevamo già vari accordi sul telelavoro: il nonno dello smart working.
Noi lo vediamo innanzitutto come una possibilità di work life balance che va incontro alle esigenze dei lavoratori.
Molto spesso è proprio dai delegati che ci viene richiesto, magari inizialmente per cercare di gestire situazioni di difficoltà, ad esempio per agevolare il rientro dopo una maternità o per rendere meno gravose le distanze tra luogo di lavoro e casa.
Non da ultimo abbiamo sottoscritto, assieme alle altre sigle, un protocollo d’intesa per la sperimentazione del lavoro agile per le cooperative partner del progetto CIP (Conciliazione in Pratica).
Q. Parlavi di accordi di secondo livello, puoi citare qualche progetto già avviato?
A. Partendo dal nonno telelavoro, (molto più complesso per le regole che ci sono: allestimento della postazione di lavoro, uscita del RSPP…) dalla mia categoria sono stati firmati accordi in Crucell, ENI, Bayer, HP Energy, Sanofi, Snam e A2A.
In Eni è partito un pilota dalla Corporate, subito richiesto da altre divisioni, in 1 anno e ½ hanno aperto si è esteso con un accordo di 6 mesi rinnovabili.
In Bayer lo spunto è stato Expo, lo smart working è stato implementato per agevolare i lavoratori che, per raggiungere il luogo di lavoro, avrebbero dovuto percorrere esattamente la tratta per la famosa fiera.
In HP Energy è stata un’estensione dell’accordo sul telelavoro della parte metalmeccanica.
Insomma, le motivazioni sono davvero svariate, ma di casi ce ne sono numerosi.
Q. Quali sono le difficoltà maggiori?
A. Ne individuo due che sono basilari, seppur molto distinte, e una terza più tecnica.
La prima riguarda il campo di applicazione che di fatto riguarda solo una parte della popolazione aziendale, non includendo tutti i lavoratori.
Mi riferisco, ovviamente, a una nicchia di impiegati perché ci sono mansioni che prevedono di essere fisicamente in azienda: i lavori in produzione, magazzino e laboratorio giusto per fare alcuni esempi.
Al contrario c’è chi è già fortemente smart come gli Informatori Scientifici del Farmaco o i commerciali rete ed extrarete delle oil company, ai quali servirebbe poco un accordo sullo smart working perché di fatto, lo fanno già svolgendo le loro mansioni.
La seconda riguarda la cultura dei manager o dei responsabili che ancora vogliono vedere le persone sedute alle scrivanie perché è solo così che pensano ci sia produttività e controllo.
La terza, invece, si riferisce all’idea di voler “far economia attraverso lo smart working”, cito un esempio su tutti: quello di non riconoscere il buono pasto per le giornate di lavoro agile, oppure al risparmio legato allo straordinario eventuale, ma credo di entrare troppo nel tecnico sindacale.
 
Q. Quali prospettive vedete nel futuro?
A. Sicuramente quella di estendere in molte aziende accordi del genere (già a livello di rivendicazioni per il contratto di secondo livello in un’azienda con sedi in tutta Italia, lo stiamo chiedendo per la sede di Milano ovviamente ciò non può essere fatto per le sedi operative).
Poi di rendere i progetti pilota di maggiore respiro come ad esempio aumentare i giorni di lavoro da casa, il numero dei lavoratori da coinvolgere o le aree lavorative.
Inoltre stiamo cercando di inserire lo smart working direttamente in qualche rinnovo di contratto collettivo nazionale, speriamo di riuscirci a breve.
 

I sindacati e lo smart working: il caso UIL

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