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In Italia, conviene non lavorare?

lavorare con partita iva

In Italia, conviene non lavorare?

Secondo la Commissione Europea all’Italia spetta il primato di persone scoraggiate che hanno smesso di cercare lavoro e secondo l’Istat solo 1/3 della popolazione lavora.


Non ho le competenze per fare un’analisi di un problema così complesso e variegato come la questione lavorativa in Italia, ma posso riflettere e far riflettere sul mio caso specifico.
A fine Marzo 2016 concludo un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, davanti a me due strade: chiedere la disoccupazione o cercare un altro lavoro.

Decido di lavorare con la partita iva…

Decido di propendere per la seconda, buttarmi e aprire la partita iva, e in barba all’età, al fatto di essere donna e addirittura mamma… Il 4 aprile sto già lavorando! Bene, no?
Ho fatto affidamento al regime agevolato: tasse calmierate per un anno, così ho tutto il tempo per ingranare col lavoro, cercare clienti, mettermi in pista, ma ahimè proprio il 4 Aprile 2016 viene emessa la circolare 10/E per cui, mi spiega il commercialista, cambiano le regole e dovrò entrare in regime ordinario.
Meno bene, ammetto di aver avuto un attimo di sconforto, ma non mollo, mi rimbocco le maniche e vado avanti per la mia strada. Lavoro.
In questi 9 mesi ho lavorato sodo, cercato contatti, instaurato relazioni, collaborato con varie realtà, studiato sempre nuovi modi per non restare ferma; a fine dell’anno alcune collaborazioni si sono chiuse, altre si sono modificate, ho già nuove proposte per il 2017 che non vedo l’ora di iniziare, ma…
A fine anno, si sa, si fa un po’ un bilancio di quanto è successo e facendo due conti, due beceri conti, sono sicura di aver fatto la scelta giusta?
Se avessi chiesto la disoccupazione avrei passato 9 mesi a casa, mi sarei riposata, avrei letto tutto quello che giace abbandonato sugli scaffali, avrei fatto tutto quello che non ho mai tempo di fare, sarei andata a prendere mia figlia a scuola, l’avrei accompagnata a danza, magari qualche corso di aggiornamento, qualche pranzo da mamma e papà, qualche viaggetto…
Invece ho scelto di lavorare, di non “pesare sul paese”, di essere produttiva, di alzarmi ogni mattina alla buon’ora, accompagnare mia figlia a scuola, andare in un coworking o dai clienti, prendere treni, carsharing, preparare presentazioni…
E questo era immaginabile, ma la cosa sorprendente emersa da questo bilancio è che se avessi scelto di restare a casa avrei guadagnato ben 408 euro in più al mese (netti).
So che non si fa mai il calcolo sul netto, ma in questo caso è necessario perché se da un lato si considera l’assegno della naspi, la sua riduzione progressiva, le rispettive trattenute irpef, etc etc; dall’altro lato va tolta l’iva, la gestione separata dell’Inps, le tasse da pagare nel 2017, e l’acconto sulle tasse del 2018.
È vero che con la partita iva si scaricano le spese, quindi i calcoli sono assolutamente al ribasso, ma diciamoci la verità, se si parla di cifre “normali” non si hanno grandi spese da pianificare, nel mio caso le attrezzature per lavorare, le spese per spostamenti e internet abbassano l’iva, ma relativamente.
Le cose che aggiungo alla riflessione sono tre:

  1. Che la base di partenza era un lordo, assolutamente in linea con la mia età, la mia esperienza, e il fatto che fossi all’inizio di una nuova attività.
  2. Che le partite iva devono pagare in anticipo delle tasse non sapendo nemmeno se avranno delle entrate.
  3. Che esistono anche gli studi di settore, che nel primo anno non ci sono, ma che nel secondo entrano a gamba tesa al posto dell’anticipo.

 
Due sono gli articoli recenti che riflettono, come me, su questo strano fenomeno;
Il primo di fine 2016, a firma di Dario Di Vico:

L’amministrazione dovrebbe essere grata a un under 35 che si mette in gioco rischiando di suo e invece gli rende difficile la vita. E per averne l’ennesima riprova basta guardare alla voce «partite Iva» del decreto fiscale collegato alla legge di Stabilità.

Il secondo di inizio 2017, di Lidia Baratta, in cui ci si interroga sul bilancio tasse-welfare per una categoria che risulta essere “l’unica fascia di lavoratori identificata solo con il regime fiscale di appartenenza”.
Io tornassi indietro rifarei la stessa scelta: quella di rientrare nel terzo di popolazione attiva, perché ci credo, perché posso e voglio lavorare, e finché avrò la fortuna di poterlo fare lo farò.
Ma siamo certi che, conti alla mano, un paese in cui conviene farsi mantenere piuttosto che essere produttivi, abbia speranze per il futuro?

In Italia, conviene non lavorare?

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