New Ways of Working

Smartworking o non smartworking questo è il problema

Siamo in primavera e assieme ai fiori si vedono sbocciare convegni, dichiarazioni, workshop e progetti pilota sullo Smart Working. Le aziende ne parlano perché oggi se non parli di Smart Working sei out, vecchio, retrogrado, poco attraente.
Io sono affascinata dallo Smart Working da anni ormai, sarà che tantissime volte mi sono detta che gran parte del mio lavoro avrei potuto farlo ovunque, sarà che ci sono stati periodi in cui ho lavorato mentre ero in ferie, sarà che ho visto tanti colleghi chiudersi in piccole salette perché avevano bisogno di concentrarsi; qualunque sia la ragione appena ne ho sentito parlare ne sono rimasta irretita.
Due anni fa ho fondato un’associazione (SmartForExpo) che si proponeva come facilitatore dello Smart Working per le aziende milanesi nei mesi di Expo.
Due mesi fa ho rifiutato un impiego in un’azienda in cui il Lavoro Agile non era permesso.
Sì, perché se è vero che oggi tutti ne parlano, è anche vero che solo il 17% delle aziende italiane ha avviato nel 2015 progetti organici di Smart Working. (Fonte: Osservatorio del Politecnico di Milano)
Parallelamente l’Olanda, che si è affacciata allo smartworking nei primi anni 90, oggi ci dice che ben il 75% dei progetti di Smart Working è fallito (Fonte: The Smartworking book.).
Ma quindi, nonostante sia sulla bocca di tutti, perché sono poche le aziende che realmente fanno Smart Working, e perché sono così tante quelle realtà in cui non ha funzionato?
Perché ancora non è chiaro cosa sia lo Smart Working: ancora non si è trovata una definizione univoca e condivisa da tutti.

Cosa non è lo Smart Working?

Smart Working non è telelavoro, ne è semmai un’evoluzione che coinvolge tempo e spazio. Non ho un cartellino da timbrare, né in ufficio né a casa, perché non conta più il tempo, ma il risultato che ottengo. Non lavoro solo dall’ufficio, ma non ho come unica alternativa la casa, bensì qualunque posto io scelga come “ufficio”. Da qui nasce l’errore di molti, compresa FIOM che in un comunicato di inizio marzo si domanda la necessità di una legge per il Lavoro Agile dal momento che ne esisteva già una per il telelavoro secondo loro più tutelante e meno rischioso.
Smart Working non è lavorare in una sede esterna 2 volte al mese, anche se gran parte delle aziende italiane che dichiara di adottare questo strumento lo declina in questo modo. Perché con 2 giornate al mese si evita la paura di un cambiamento troppo impattante, ma al contempo si ottengono uguali benefici a livello di comunicazione ed employer branding.
Smart Working non è concedere alle mamme la flessibilità di uscire prima per andare a prendere i figli a scuola, anche se spesso lo si usa come sinonimo di conciliazione o lo si pensa solo declinato al femminile.
Smart Working non è solo lavorare con un tablet o uno smartphone, perché se lo strumento è smart a quel punto lo diventa in automatico anche il lavoro.
Alle incomprensioni si sommano gli alibi.
“Non ho la tecnologia adeguata” “Cosa succede se mentre la mia dipendente lavora da una panchina del parco viene colpita dalla palla lanciata da un bambino?” “Come faccio a verificare che non se ne approfitti ma che lavori?”
Per rispondere a queste domande sono sbocciate in ogni dove realtà che si occupano di aiutare le aziende con i tools, gli spazi, gli accordi integrativi. Io stessa due anni fa sono caduta nella trappola degli “alibi” e con la mia associazione ho creato dei pacchetti chiavi in mano così da facilitare la diffusione di uno strumento in cui credevo e credo fortemente, ma non ha funzionato.

Ma quindi, questo Smart Working ormai tanto famoso esattamente cos’è?

E soprattutto, perché risolti tutti gli alibi lo Smart Working, nel significato più pieno del termine, ancora non decolla?
Perché Smart Working è soprattutto cambiamento organizzativo, molto più ampio di quanto possa sembrare a un primo approccio, e in quanto tale spaventa.

Un profondo cambiamento culturale che richiede di passare dalla presenza fisica, al lavoro per obiettivi, con una sempre maggiore autonomia nella gestione delle attività e un’evoluzione  nei modelli di leadership.

Intervista a Unicredit su Il Sole 24 Ore.

Ma il punto focale non è ancora del tutto sviscerato: il cambiamento di cui si parla, è ancora più difficile ad attuarsi perché i primi da cui dipende, coloro i quali si devono mettere in gioco in prima persona, sono i Manager.
Etimologia: voce inglese, to manage, che è dall’italiano maneggiare; in origine ‘maneggiare cavalli’, poi ‘amministrare, governare’. Manager: “maneggiare”, condurre, guidare; il termine stesso ha forte dentro di sé il concetto di fisicità.
Ma nel mondo del lavoro così come è oggi, in totale e continua evoluzione, “mosso” da cambiamenti tanto radicali da essere definiti la “quarta rivoluzione industriale”, essere buoni manager deve prescindere dalla fisicità.
Condurre e guidare oggi significa saper suddividere i compiti alle persone giuste, che presuppone che i compiti si conoscano; assegnare obiettivi e conseguentemente essere capaci di valutarli, cambiando metro di giudizio; delegare le attività, che implica fidarsi dei propri collaboratori; motivare le persone, facendosi seguire anche da chi non si vede tutti i giorni.
Il manager, insomma, deve uscire da quella zona di confort in cui ha vissuto fino ad oggi e sono pochi a volersi mettere in gioco. Ma in una società dove il lavoratore è sempre più al centro di richieste, esigenze, aspirazioni, capace di scegliere e consapevole di ciò che vuole, i manager devono evolvere e trasformare così le loro aziende.
Io oggi sono felice di poter fare Smart Working, ma per farlo ho dovuto scegliere di non essere più una dipendente, chissà che un domani non possa tornare in azienda come una felice smart worker.
 

Smartworking o non smartworking questo è il problema

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