New Ways of Working

Lo smart working? Una filosofia di vita

smart working filosofia di vita

Oggi avevo voglia di condividere esperienze e pensieri sullo smart working con chi, come me, ne ha fatto una filosofia di vita.
Conosco Silvia ZanellaGlobal Social Media & Online Media Director di Adecco Group, esperta di smart working, da tanto tempo. Le nostre strade si sono incrociate per un periodo di 4 anni, in cui mi ha trascinato con entusiasmo e grinta nel mondo del digitale, dei social media e dell’innovazione.
La modalità di confronto di oggi è decisamente smart: io in treno per Bologna per un appuntamento con un cliente, lei al mare col suo piccolo Pietro.
Q. Silvia, hai seguito fin da subito lo smart working o lavoro agile che dir si voglia; cosa ti ha fatto credere che fosse un reale vantaggio per i lavoratori e per le aziende?
A: E’ vero, ho creduto nello smart working fin da subito perché era ed è, uno dei pochi fenomeni emergenti in cui intravedere il futuro del lavoro. Esiste e ti costringe a ripensare la collaborazione tra azienda e dipendenti, l’implementazione e l’utilizzo dei device, le politiche interne, le linee guida da adottare.
Con lo smart working è necessario ripensare l’orario classico di lavoro, come valutare i dipendenti, come impostare il rapporto tra colleghi e tra colleghi e manager.

Ci ho creduto soprattutto perché, a differenza di altri fenomeni più evanescenti, è stato immediatamente percepibile come potesse influire sulla ridefinizione del lavoro.

 
Q. Tu hai gestito in prima persona un gruppo di colleghi in smart working “obbligato” visto che erano fisicamente in località diverse, quali strumenti hai messo in campo per lavorare al meglio?
A. Servono due tipologie di “strumenti” per la gestione di un team in smart working. Senza dubbio è necessaria una serie di strumenti “hard” che vanno dai software di messaggistica alla videoconferenza, all’utilizzo di software di project management per la condivisione dei progetti; insomma la tecnologia è necessaria per sopperire alla mancanza di contatto fisico con la tecnologia. Ma non è certo sufficiente, quindi è essenziale affiancarla ad altri strumenti più “soft”. Dapprima non isolarsi completamente, ma cercare un contatto fisico, un incontro faccia a faccia per dare un volto alle persone e per costruire un filo su cui poi proseguire nella “relazione a distanza”; e poi utilizzare i social media a supporto della relazione: non potendoti essere vicina fisicamente utilizzo questi strumenti per avere la possibilità di conoscerti meglio, anche personalmente, e quindi facilitare il rapporto.
Q. Immagino ci siano state anche difficoltà. Quali hai riscontrato in prima persona? 
A. Certamente; una veramente forte e potenzialmente molto pericolosa.
Ci vuole un mutuo accordo di rispetto sui termini della relazione, mi spiego meglio: deve essere chiaro ed esplicito che la relazione a distanza necessita di chiarezza estrema e reciproca.
In caso di difficoltà, se ci si nasconde, si deteriora il rapporto molto più velocemente che in una relazione “fisica”. Perché non lo vedi e non te ne accorgi. Sembra banale, ma non lo è affatto: i segnali che qualcosa si sta incrinando sono deboli perché mediati, e quando diventano forti ormai la situazione è compromessa. Bisogna essere chiari su questo aspetto perché tocca uno dei punti cardine dello smart working: la relazione nel team di lavoro.
 
Q. In un’intervista che hai rilasciato alla recentissima SMW alla domanda “Lo smart working serve a non farci staccare mai o può migliorare il lavoro e la nostra vita?” hai risposto in modo un pò provocatorio con un’altra domanda: “Siamo disponibili a prenderci la responsabilità di quello che facciamo?” – Come colleghi la responsabilità al pericolo del burnout?
A. C’è un collegamento molto forte. Lo smart working porta con sé il rischio di un disequilibrio: perché si devono ridisegnare i confini del work life balance, e l’organizzazione spesso non è in grado di farlo, quindi non si sa dare dei limiti. L’unica arma per combattere questo pericolo è diffondere la cultura dello smart working, non improvvisare e personalizzarne la modalità sulla base della propria cultura interna.
Altro aspetto importantissimo è  la sua legittimazione: lo smart working non è un “giochino” da mamme, un discorso da affrontare solo per comportamenti limite, è qualcosa che impatta su tutti e che va regolamentato (se vuoi saperne di più sulla legislazione puoi leggere questo articolo o dare un’occhiata qui). Necessita di informazione, e di un lavoro comune tra azienda e collaboratore.
 
Q. Come ti immagini lo smart working tra 5 anni, quali evoluzioni avrà e come si svilupperà nelle aziende? E’ una moda e come tale destinata a scomparire o è una reale necessità destinata quindi a consolidarsi?
Lo smart working corre di pari passo a tendenze impalpabili. La virtualizzazione dei team di lavoro, ad esempio, sarà una realtà: non solo in aziende come quella in cui lavoro io, ma cross tra diverse realtà.
Esisteranno sempre più team virtuali dislocati geograficamente e concettualmente in tutto il globo, e l’ibridazione delle aziende e delle competenze sarà quotidianità. Insomma, oggi siamo solo all’inizio: lo smart working è solo l’avvisaglia di un movimento molto ampio, stiamo preparando la strada al futuro mondo del lavoro.
 

Lo smart working? Una filosofia di vita

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