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Smart working e uso consapevole delle tecnologie: quale ruolo per il benessere digitale?

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Foto di Life Of Pix da Pexels

Nell'era in cui le tecnologie portano all'iperconnettività ed il lavoro diventa onnipresente, emerge il tema del benessere digitale o digital wellbeing.

È l’era dell’ubiquitous computing, quella in cui le tecnologie digitali pervadono ogni aspetto dalla vita quotidiana. È l’era in cui il lavoro, come le tecnologie, diventa onnipresente, flessibile, intelligente. La pandemia ha accelerato la transizione verso la cultura digitale e siglato l’istituzionalizzazione dello smart working. Lo shock esogeno originato dal COVID-19 ha evidenziato l’urgenza di investimenti ad hoc e piani strategici per la trasformazione digitale delle imprese, quale connubio tra una forza lavoro, spazi di lavoro e routine di lavoro digitali.
Al contempo, la sospensione dello stato di “normalità” e la segregazione tra le mura domestiche hanno contributo a modificare le abitudini quotidiane, incluse quelle relative all’utilizzo delle tecnologie di comunicazione. Le connessioni sono esplose e la rete ha raggiunto livelli di accesso esorbitanti. Per i lavoratori la connettività è diventata ininterrotta, il carico informativo terribilmente oneroso. Travolti da un flusso continuo di notifiche, chiamate e mail, si sono moltiplicate le richieste di partecipazione a riunioni estemporanee, spesso estenuanti oltre che improduttive (Richter, 2020).
Stati di connettività costante (Kolb et al., 2012) e di telepressione (Barber e Santuzzi, 2015) diventano la prova evidente di un uso poco consapevole delle tecnologie, come quando strumenti di comunicazione asincrona (mail) sono impiegati in modo sincrono (telefono).
Esposti a sollecitazioni, ma anche a distrazioni continue, tale stato di dipendenza tecnologica si manifesta anche in modo più subdolo, ad esempio nella forma di pensieri ricorsivi che ci mantengono imbrigliati mentalmente nel lavoro anche quando siamo fisicamente disconnessi.
Generando burnout, l’uso improprio della tecnologia accresce i livelli di stress e mette a rischio il work-life balance, risultando deleterio per la concentrazione e la creatività, ma anche controproducente, nel medio e lungo termine, per la produttività, la soddisfazione sul lavoro, l’impegno organizzativo (cfr. Errichiello e Demarco (2020), in Spremute Digitali).
La consapevolezza dei rischi insiti in uno stato di iper-connettività e la necessità di porre in essere delle adeguate contromisure pone in primo piano il tema del “benessere digitale” (o “digital wellbeing”).

Cosa è il benessere digitale o digital wellbeing?

Per capire cosa si intende per benessere digitale, può essere utile partire dal concetto di benessere. Al riguardo, la Commissione Salute dell’Osservatorio Europeo su sistemi e politiche per la salute lo definisce come

lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società.

La definizione ne sottolinea da un lato la natura composita, quale concetto più inclusivo di quello di salute, al quale viene spesso assimilato; dall’altro, essa riconosce che si tratta di una condizione valutabile in relazione alla capacità dell’individuo di esprimere adeguatamente sé stesso in relazione agli altri. Nella ricerca manageriale, si parla più spesso di “benessere nel luogo di lavoro” per indicare, oltre ad una condizione di salute generale, uno stato di soddisfazione vissuto in maniera soggettiva dal lavoratore rispetto a vari ambiti della vita privata (es. sfera sociale, familiare, spirituale, etc.) e lavorativa (es. retribuzione, opportunità di carriera, relazioni con i colleghi e con i capi, etc.) (Danna e Griffin, 1999).
Alla luce di tali considerazioni, il benessere digitale può essere definito come un’esperienza soggettiva in cui l’utilizzo delle tecnologie digitali garantisce una condizione di equilibrio ottimale tra i vantaggi e svantaggi della connettività (Vanden Abeele, 2020).
Benessere digitale, dunque, vuol dire innanzitutto riconoscere i vantaggi della connettività. Questi possono essere di tipo “edonistico”, con riferimento al piacere che si prova, ad esempio, chattando con i colleghi o partecipando attivamente al social network aziendale; un piacere che però, è bene sottolineare, rimane sempre “sotto controllo”.
I vantaggi possono altresì essere di tipo “eudamonico”; in tal caso, la connettività supporta in modo funzionale il lavoratore, come avviene con gli strumenti di videoconferenza o di collaborazione in remoto.
Per garantire una condizione di benessere digitale, tuttavia, è anche necessario minimizzare il rischio che il lavoratore perda il controllo della tecnologia, o che la tecnologia comprometta il normale svolgimento delle sue attività, come avviene quando essa produce continue distrazioni o spinge ad un abuso del multitasking (Carciofi, 2017).
Proprio per effetto della natura ambivalente della connettività (in grado, cioè, di produrre sia esperienze positive che negative) il benessere digitale non corrisponde perciò ad una condizione stabile, ma ad un processo dinamico che si concretizza nella ricerca continua di uno stato di equilibrio ottimale.

Quali sono i fattori che influenzano il benessere digitale?

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Quali sono i fattori che influenzano il benessere digitale?

Secondo un recente modello concettuale proposto negli studi di comunicazione e social media (Vanden Abeele, 2020), il benessere sociale è influenzato da tre tipologie di fattori tra loro interdipendenti:

  1. caratteristiche individuali;
  2. proprietà della tecnologia;
  3. condizioni di contesto.

Caratteristiche individuali. La prima categoria di fattori si riferisce innanzitutto a tratti stabili della personalità, come l’impulsività e il timore di rimanere esclusi, che espongono maggiormente l’individuo all’insorgere di problematiche nell’uso delle tecnologie digitali. Ci sono però anche stati contingenti in grado di influenzare il benessere digitale, come quello di noia, stress o demotivazione personale, tutti terreno fertile di distrazioni. Infine, a fattori individuali sono riconducibili anche alcuni stati di preoccupazione, come accade quando viviamo l’ansia di controllare continuamente le comunicazioni e di rispondere con urgenza alle e-mail.
Proprietà della tecnologia. La seconda categoria di fattori include principalmente le proprietà strutturali con cui vengono progettate le tecnologie digitali (es. sistemi operativi, applicazioni, interfacce, etc.) In particolare, le tecnologie potrebbero avere un design ad hoc e funzioni specifiche, esplicitamente realizzati per promuovere il benessere digitale dell’utilizzatore. Pensiamo, ad esempio, ai cosiddetti “dumb-phone” (o cellulari “muti”), privi di connessione internet, antenna wi-fi e chip per collegarsi online.
Oppure ai sistemi di disattivazione delle notifiche. Anche la possibilità di installare applicazioni di “digital detox”, come avviene nel caso degli smartphone, rientra in tale categoria. È questo il caso della famosa app realizzata da Google “benessere digitale” che permette di monitorare le abitudini digitali giornaliere, al fine di ridurre le distrazioni e favorire la disconnessione.
Le tecnologie, tuttavia, non vanno considerate da sole, ma studiate anche in relazione a situazioni contingenti. Al riguardo, particolarmente interessanti sono i risultati che emergono da una recente ricerca (es. Johannes et a., 2018) in base alla quale è sufficiente avere il cellulare nel proprio campo di visibilità per sentire il bisogno continuo di controllare le notifiche e i messaggi ricevuti.
Condizioni di contesto. L’ultimo gruppo di fattori si riferisce all’insieme di aspettative, regole e norme condivise che formano il contesto sociale in cui le tecnologie digitali sono utilizzate. Siamo ormai permeati da una “cultura della connettività” che ha portato le persone ad essere sempre rintracciabili. In alcuni circostanze, tuttavia, è possibile gestire in modo più semplice la connettività, perché esistono regole più o meno esplicite al riguardo, come avviene nel caso in cui si partecipi a conferenze o riunioni formali online, dove l’impiego del cellulare viene percepito come mancato rispetto della “netiquette”.
Purtroppo, sono molto più frequenti le situazioni in cui è necessaria una negoziazione della connettività. Al riguardo, questi mesi di home working hanno dimostrato quanto sia spesso difficile stabilire dei confini netti tra la vita privata e quella lavorativa online. In questo caso, obiettivi personali e obblighi legati al proprio ruolo professionale sono in competizione, e ciò inevitabilmente genera tensioni nel lavoratore.
Similmente, l’appartenenza ad un certo gruppo sociale o a una certa organizzazione può generare una pressione normativa che spinge lo smart worker ad essere sempre disponibile nei confronti dei colleghi, oppure a controllare le email del proprio capo anche dopo le ore lavorative, per timore di ricevere una valutazione negativa o nella speranza di impressionarlo positivamente (cfr. anche Errichiello e Demarco, 2020).

Dalla “cultura della connettività” alla “cultura del benessere digitale”

Assumere che il benessere digitale sia influenzato da una molteplicità di fattori e condizionato dalla complessità delle relazioni che gli individui hanno con le tecnologie, permette di capire che non esistono formule ed interventi universalmente validi atti a garantire il benessere digitale degli smart worker. Al contrario, è necessario considerare la variabilità che esiste tra gli individui, in termini di caratteristiche ed aspettative, ma anche di scelte di design della tecnologia e di contesto sociale.
Pur non negando il valore degli sforzi del lavoratore orientati ad acquisire nuove routine e rituali per il benessere digitale, né quello della progettazione delle tecnologie, è bene evidenziare il ruolo centrale dei manager e delle organizzazioni nel favorire la transizione da una cultura della connettività ormai dilagante, ad una più equilibrata cultura del benessere digitale (Demarco e Errichiello, 2021).
Al riguardo, gli interventi dovrebbero andare ben oltre il mero riconoscimento formale del diritto alla disconnessione o di fasce di reperibilità concordate a priori con il lavoratore. È necessario, infatti, pianificare interventi più profondi in grado di ridurre quella pressione normativa che esaspera il senso di responsabilità del lavoratore verso una domanda di connettività e disponibilità attesa, espressa per lo più implicitamente da colleghi e responsabili. Interventi volti a creare un ambiente di lavoro in cui gli smart worker si sentano costantemente riconosciuti e supportati, in ufficio, come a casa o in un altro luogo di lavoro.
Oggi che lo smart working sta ridisegnando in modo radicale l’organizzazione delle attività, si corre il serio il rischio di istituzionalizzare una cultura del lavoro “tossica”, in cui mancano chiare politiche o esplicite aspettative sulla disponibilità e i tempi di risposta dei lavoratori. In prospettiva, policy e misure organizzative orientate al benessere digitali diventano, all’indomani della pandemia, una risorsa preziosa per mantenere alta, tra gli smart worker, la percezione di supporto organizzativo e, di conseguenza, la motivazione, la soddisfazione sul lavoro e il legame con l’azienda.

Riferimenti bibliografici

Barber, L. K., & Santuzzi, A. M. (2015). “Please respond ASAP: Workplace telepressure and employee recovery”. Journal of Occupational Health Psychology, 20(2), 172.
Carciofi, A. (2017). Digital Detox: Focus & produttività per il manager nell’era delle distrazioni digitali. Hoepli Editore.
Danna, K., & Griffin, R. W. (1999). “Health and well-being in the workplace: A review and synthesis of the literature”. Journal of management, 25(3), 357-384.
Demarco, D., Errichiello, L. (2021), “Smart working, stati di connettività e identità professionali in transizione. Un dialogo critico tra filosofia e management”, Research Trends in Humanities, sezione “Evolving Philosophy”, vol. 8, pp. 126-137.
Errichiello, L., Demarco D., (2020), Quando l’emergenza accende l’innovazione: ICT, smart working e le tensioni della connettività, in Spremute Digitali
Errichiello, L., Demarco D. (2020), “From social distancing to virtual connections. How the surge of remote working could remold shared spaces”, TeMa. Journal of Land, Use, Mobility and Enviromment, Special Issue Covid-19 vs City-20, pp. 151-164
Kolb, D. G., Caza, A., & Collins, P. D. (2012). “States of connectivity: New questions and new directions”. Organization Studies, 33(2), 267-273.
Johannes, N., Veling, H., Verwijmeren, T., & Buijzen, M. (2018). Hard to resist? The effect of smartphone visibility and notifications on response inhibition. Journal of Media Psychology: Theories, Methods, and Applications, 31(3), 214–225. doi:10.1027/1864-1105/a000248
Richter, A. (2020). Locked-down digital work. International Journal of Information Management, 102157.
Vanden Abeele, Mariek M.P. (2020). “Digital wellbeing as a dynamic construct,” Communication Theory (17 October).

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